Pozzo di San Patrizio – Orvieto

Sguardo dall’alto verso il fondo del pozzo. Sulle mura si vedono alcune finestre mentre sul fondo il ponte in ferro sospeso sull’acqua.

Antonio da Sangallo: costruttore ingegnoso

Sul ciglio della rupe di Orvieto si apre una piccola piazza occupata solamente da un edificio cilindrico, apparentemente anonimo. La struttura, in realtà, cela e contiene una “cosa ingegnosa di capriccio e maravigliosa di bellezza”. È con queste parole che Giorgio Vasari (in “Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architetti”, 1550) conclude la descrizione di questa affascinante opera architettonica e ingegneristica: un profondo pozzo scavato nel tufo. La storia di questo pozzo si lega con quelle del papa e di Roma, di Firenze, dell’imperatore Carlo V d’Asburgo e dei Lanzichenecchi. È il mese di maggio del 1527 e Roma viene presa letteralmente d’assalto su più fronti dalle fameliche truppe spagnole e tedesche, con un saccheggio devastante per la popolazione e per la stessa città. Papa Clemente VII (1478 – 1534) riesce a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo e qui assiste inerme alla distruzione di Roma. L’evento drammatico, conosciuto come Sacco di Roma, dura mesi. 

La fuga del Papa a Orvieto

In una notte d’inverno del 1527 (5-6 dicembre) il pontefice scappa di nascosto e si rifugia a Orvieto. Una volta al sicuro nella cittadina umbra, Clemente VII apre ufficialmente il cantiere per il pozzo, affidando il progetto al fiorentino Antonio Cordini, chiamato Antonio da Sangallo il Giovane (1484 – 1546), per distinguerlo dallo zio, anch’egli architetto, Antonio da Sangallo il Vecchio. Già qualche anno prima, nel 1525, Antonio da Sangallo il Giovane era a Orvieto su mandato papale con il compito di accertare la possibilità di convogliare l’acqua dentro la città per assicurare l'approvvigionamento idrico sia durante possibili assedi, sia per sopperire al cattivo funzionamento dell’acquedotto medievale dell’Alfina. Perché il Papa si preoccupa dell’acqua? Perché la prima mossa nell’assediare una città è tagliarne gli approvvigionamenti. Clemente VII decide quindi di far costruire un pozzo per rendere autonoma Orvieto dal punto di vista idrico, cercando di resistere dall’interno delle mura nel caso avesse dovuto subire lo stesso destino di Roma. L’impresa viene commemorata con una medaglia realizzata dal grande scultore fiorentino Benvenuto Cellini e coniata per volere di Clemente VII con la scritta: ut bibat populus, ossia “affinché il popolo beva”.

La struttura del pozzo di San Patrizio

La struttura circolare esterna, bassa e larga, è il punto di accesso al pozzo che penetra nelle viscere della roccia fino a una sorgente d’acqua. Sulla parete rivestita in mattoncini un’iscrizione in latino recita: “Quod natura munimento inviderat industria adiecit, ovvero “ciò che non aveva dato la natura, procurò l’attività umana”. Varcato l’ingresso, si è di fronte a una rampa di scale molto basse e larghe che conduce fino al fondo, dove è posto un ponticello per attingere l’acqua. Poiché erano gli animali, soprattutto i muli, che dovevano trasportare l’acqua, i gradini non potevano essere troppo alti e stretti. Una volta riempite le anfore si poteva risalire percorrendo un’altra scala fino all’uscita in superficie, la porta d’uscita è diametralmente opposta a quella in ingresso. Antonio da Sangallo progetta e costruisce due rampe elicoidali che permettono di non far incontrare chi scende e chi sale con l’acqua. Sempre Vasari descrive così la costruzione: “[…] la salita è per una scala deversa dalla discesa; poiché due sono le scale montate a spira intorno al vuoto del pozzo, per le quali possono passare senza incontrarsi quei che salgono con quei che discendono”.

Funzionalità ed estetica

Antonio da Sangallo riesce a realizzare un’architettura geniale, in cui la funzionalità e l’estetica sono strettamente connesse e inscindibili, una non può esistere senza l’altra: funzionale perché, per come è stata progettata e costruita, era la risposta perfetta al suo scopo pratico, ossia non lasciare senz’acqua la città; estaticamente bella perché nonostante l’essenzialità degli elementi utilizzati riesce ad affascinare ancora oggi. Molti restano stupefatti dalla visita di questo luogo che vive nella terra e nella luce. Grazie al grande oculo centrale e alle aperture lungo il percorso, lo spazio scenografico è illuminato in maniera naturale, diminuendo man mano che ci si avvicinava al ponticello. Ecco un po’ di numeri: la profondità del pozzo è 62 metri e la sua larghezza è di 13 metri; la lunghezza è percorsa da 72 finestre; le rampe di scale disposte a spirale sono 2 e i gradini sono 248; 10 sono gli anni impiegati per terminare il progetto. Il pozzo, chiamato anche della Rocca, fu completato nel 1537, quando già da alcuni anni al soglio pontificio vi era un nuovo papa: Paolo III Farnese.

La leggenda del pozzo di San Patrizio

Il Pozzo della Rocca di Orvieto prende il nome di San Patrizio nella seconda metà del Settecento, duecento anni dopo la sua costruzione, dai frati dell’ordine dei Servi di Maria. Tutto nasce da un’analogia con un luogo mistico medievale: il Purgatorio di San Patrizio. La leggenda narra che in Irlanda, in un’isola sul lago Derg, vi fosse un pozzo indicato da Cristo a Patrizio (370 c.- 461), famoso santo vescovo irlandese, presso il quale era solito pregare. Il luogo richiamava i pellegrini che qui sostenevano di avere delle visioni dell’inferno e del Purgatorio. La storia è stata scritta da un monaco cistercense intorno al 1170 (“Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii”), tradotta e diffusa. In forma più breve la stessa storia è presente, un secolo dopo, anche in un altro testo molto conosciuto nel Trecento: la “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine. La “Legenda Aurea è una raccolta di vite dei santi che è stata un’importante fonte di ispirazione per molte pitture. L’immagine di San Patrizio che mostra un pozzo come accesso all’aldilà era, dunque, conosciuta e riprodotta in manoscritti e affreschi. Un esempio? Non occorre allontanarsi troppo: basta recarsi al convento di San Francesco a Todi. Come nella grotta irlandese anche nel pozzo di Orvieto si scende verso il buio, verso il basso dove si trova però l’acqua, elemento purificatore, per poi risalire verso la luce dall’altra rampa di scale. Alla funzione pratica viene successivamente associata quella mistica, che evoca un percorso iniziatico e metaforico della vita: il pozzo permette di camminare sempre in avanti, senza cambiare mai la direzione.

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